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La paura dell’Islam, tra pregiudizi e luoghi comuni

La misura è colma, dicevano gli antichi. Gli ultimi avvenimenti di Goro, a cui abbiamo assistito sconcertati ma soprattutto turbati, ne sono la prova provata. Donne e bambini che alzano barricate, impedendo ad altre donne ed altri bambini di porre fine alle loro sofferenze. Donne che per tutelare il loro sacrosanto di diritto di dormire con la porta di casa aperta, chiudono invece gli occhi di fronte al dolore a all’angoscia di chi cerca solo un po’ di pace.

A poco, o nulla, servono le parole del Sindaco di questo piccolo comune sulle sponde del Po. A niente, anzi, serve sottolineare che molti di coloro che hanno alzato quelle, infami, barricate non erano “suoi” cittadini. Non serve a quelle donne stremate, dopo mesi di traversata, né tantomeno servirà a cancellare il rifiuto dalle menti di quei bambini. Soprattutto, però, non servirà a salvare la faccia, sempre che questo fosse l’intento. Non c’è salvezza, infatti, per chi ignora il patimento di un altro essere umano. Dov’è finita, viene da chiedersi, quella pietà figlia della nostra presunta cultura cristiana. Smarrita, forse, tra paure ingiustificate ed un populismo che sa molto più di razzismo.

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Fonte: Africaemediterraneo

Una breve, ma doverosa, premessa utile per introdurre l’ultimo rapporto presentato, lo scorso giovedì al Teatro Orione di Roma, dall’IDOS. Un dossier che, come ogni anno, cerca di fare chiarezza sul fenomeno migratorio, smascherando luoghi comuni e palesando l’imprescindibilità di un sistema d’integrazione reale. Una necessità, quest’ultima, di cui oggi più che mai si sente un gran bisogno. Alla realizzazione del volume hanno contribuito diverse soggetti, tutti accomunati dalla volontà di fare ordine nel marasma che avvolge queste tematiche. Confusione che, ahimè, palesa l’assenza di politiche capaci di eradicare sul nascere pericolose spinte xenofobe e islamafobe.

Gli aspetti toccati dal rapporto sono diversi: dal mondo del lavoro all’ambito sociale, passando per le pari opportunità. Tra questi ce n’è uno, appunto, che più di ogni altro sembra caratterizzare i nostri tempi. Un aspetto, molto spesso strumentalizzato e fonte di incomprensioni. Come ebbe modo di affermare Jonathan Swift, infatti, “abbiamo religioni a sufficienza per farci odiare, ma non a sufficienza per farci amare l’un l’altro“. La citazione, ovviamente, esula dalla premessa, resta utile però per sottolineare una delle ragioni della tensione a cui stiamo assistendo. Non potrebbe che essere così, data l’importanza che la religione riveste tanto per i migranti quanto per i loro detrattori.

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L’islamofobia nel Vecchio continente sembra un fiume in piena. Alimentata dagli ultimi attentati terroristici, ha finito per rivelarsi un volano per partiti politici affamati di voti. Barconi pieni di disperati si sono trasformati in flotte di terroristi pronti a mettere a ferro e fuoco l’Europa. Il risultato più evidente è stato il diffondersi di pregiudizi e discriminazioni. Ad essere maggiormente colpiti, secondo il dossier, tutti quei musulmani che hanno scelto di attenersi ai precetti religiosi in tema di abbigliamento e alimentazione. Sempre più donne, infatti, subiscono aggressioni per il solo motivo di indossare un velo. Come se coprire i propri capelli bastasse a fare di te una terrorista.

La questione del velo, tuttavia, accomuna l’Europa tutta, travalicando confini e frontiere ed ha interessato paesi che mai avremmo immaginato. A gettare benzina sul fuoco, fa notare l’IDOS, è stata la decisione di vietare l’utilizzo del burkini sulle spiagge d’oltralpe. Una scelta discutibile e dalla dubbia efficacia, nata da una strampalata idea di sicurezza pubblica e, quindi, prontamente annullata dal Conseil d’Etat. Qualcosa di molto simile a quello che ha coinvolto una ragazza italiana di fede islamica. La giovane, candidatasi per un posto da hostess, fu esclusa per via del velo che indossa abitualmente. A porre rimedio a questa, evidente, discriminazione ci ha pensato la Corte d’Appello di Milano, affermando che sia in ambito pubblico che privato, il capo coperto non può rappresentare motivo di discriminazione per un lavoratore.

“Non sono d’accordo con le tue idee ma lotterò fino alla morte affinché tu possa manifestarle”, diceva Voltaire. Mai aforismo fu più condivisibile. Chissà, come avrebbe reagito il filosofo francese nei confronti delle offese mosse contro l’allora Ministro Kyenge, invitato a fare ritorno nella “giungla”. O davanti a quel meschino cartello che, invocando le solite presunte radici cristiane ed occidentali, pregava tutti gli altri ad abbandonare il Comune di Pontoglio. La solita vecchia storia, quindi. Quella che contrappone, senza soluzione di continuità, libertà d’espressione ed incitamento all’odio raziale o religioso. Parole e gesti che feriscono come coltelli. Uno schiaffo a Voltaire e alla dignità di migliaia di persone.

Un’anacronistica caccia alle streghe, portato all’estremo proprio contro quei luoghi di culto tanto demonizzati. Ignorando, però, che la partita dell’integrazione si gioca proprio lì. Dentro di essi e tra le comunità di fede, contesti dove gli immigrati trovano quel poco di welfare che i Governi non sono in grado di offrire. Senza dimenticare, poi, che spesso è proprio qui che queste persone imparano la nostra lingua e le nostre tradizioni. L’assenza di disposizioni normative in tal senso, non ha fatto altro che incoraggiare molti regioni d’Italia a mettere in discussione il diritto alla libertà religiosa. Un argomento complesso, lasciato purtroppo al gradimento dell’opinione pubblica.

La stessa opinione pubblica che sembra pervasa da un’erronea percezione della realtà. Figlia dell’ignoranza e della manipolazione. A tal punto, da confondere il disordine geopolitico, la marginalizzazione e il fallimento dei percorsi d’integrazione con un forviante scontro tra religioni. Un’epica battaglia tra il bene e il male, tra noi e loro. Come se uccidere al grido “Allah u Akbar” fosse diverso dal quel “Deus lo volt” di crociata memoria, ma non troppo. Riecheggiano ancora, le immagini delle stragi commesse dai vari gruppi ultra-cristiani che in giro per il mondo hanno macinato migliaia di vittime.

C’è, però, un altro aspetto responsabile di aver favorito la distorsione della realtà. Si fa un gran parlare, infatti, di una quanto mai mendace invasioni mussulmana del Belpaese. Niente di più errato, se si considera che, sul totale degli immigrati sbarcati sulle italiche coste, solo il 32,2% e di fede mussulmana contro il 53% dei loro fratelli cristiani. Una percentuale addirittura in calo del 9% rispetto allo scorso anno. Numeri, freddi certo. Che, se da un lato, ben spiegano l’ignoranza sul fenomeno migratorio attuale. Dall’altro, non servono a giustificare le continue restrizioni alla libertà religiosa a cui, secondo USCIRF, sono sottoposti i non cristiani d’Europa. Come quegli oltre 7.900 ebrei che, nel 2015, hanno ritenuto necessario lasciare la Francia.

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Non vi è dubbio che la dimensione religiosa, ormai, rivesta un’importanza tale da poter essere assimilata a quella economica e sociale. La sua importanza sta tutta nel fatto d’incidere sia sul piano costituzionale, quanto su quello del rispetto dei Diritti Umani, finendo per giocare un ruolo decisivo sui meccanismi d’integrazione. Gli esiti sperati, per le ragioni sopra indicate, non sono stati raggiunti. Anzi, la possibilità di favorire il riconoscimento di un comune destino rischia di essere soffocato da muri e pericolosi pregiudizi. Un’eventualità che potrebbe essere scongiurata solo coinvolgendo tutte le comunità di fede presenti sul territorio ed impegnandole in un concreto patto civile.

Mattia Bagnato

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