L’eco di uno sparo, il libro di Massimo Zamboni

«Questa è la storia di Ulisse e dei suoi sparatori che infine si spararono tra loro, tutto sconvolgendo. Il racconto di ciò che è stato prima e che ha innescato quei colpi in canna, di ciò che è stato dopo e perdura inconciliato, forse inconciliabile. Di questo la mia famiglia è stata testimone: che ogni sparo da spari precedenti è generato e a sua volta genera spari, nell’instaurarsi di una catena senza fine.
Questo abbiamo imparato: l’eco di uno sparo non si quieta mai».
Nessuno di noi conosce veramente la storia della propria famiglia. Si conoscono i nonni e forse anche i bisnonni, se si ha avuto la fortuna di condividere un pezzettino di vita insieme; ma non ci si chiede mai da dove vengano e che cosa abbiano effettivamente fatto prima che noi venissimo al mondo. Nel caso in cui siano scomparsi prima della nostra nascita, poi, ci si ricorda a malapena della loro esistenza; a meno che non si porti il loro nome, grazie ad un’antica usanza familiare ancora in essere, talvolta, nelle nostre campagne.
Questo è il caso di Massimo Zamboni, al secolo chitarrista e compositore dei CCCP e dei CSI, che di secondo nome fa Ulisse: Ulisse come suo nonno, fascistacon ruoli politici di rilievo, ucciso nel 1944 da due partigiani che più di dieci anni dopo, si sono sparati tra di loro.
Zamboni ci ha regalato, il 31 marzo, il libro L’eco di uno sparocome il risultato di più di sette anni di ricerche lente e meticolose, negli archivi comunali, in quelli parrocchiali, tra le carte preziose in mano agli Istituti destinati a preservare la memoria della nostra storia recente, e io ho avuto la fortuna, questa sera, 10 aprile, di incontrarlo nel mio comune per quella che è stata una sorta di anteprima del tour di presentazioni di questo lavoro.

Massimo Zamboni CCCP CSI
Credits: Francesco Ballestrazzi



Massimo ha scavato nel passato della sua famiglia per dare un volto a quel nonno che nei – pochi – racconti di sua madre era soltanto un’immagine filtrata dall’affetto di figlia, e ci ha restituito una narrazione all’apparenza privatissima, ma che in realtà potrebbe essere quella di qualunque famiglia che ha vissuto quegli anni in queste terre.
Il libro porta come sottotitolo Cantico delle creature emilianeperché non è nient’altro che questo: un canto della materia di cui sono fatte le persone che hanno abitato, amato, lottato, sono morte in Emilia negli ultimi due secoli.
La prosa profonda e fluente di Zamboni dipinge le nostre pianure, le terre strappate dall’acqua del grande fiume Po, le mani nodose di chi le ha lavorate e ne ha raccolto i generosi doni dopo un inverno di nebbia. Racconta delle strade di paese durante le estati afose e appiccicose che, negli anni Venti del Novecento, sono state insanguinate anche da suo nonno per via delle scorribande delle squadracce fasciste. Sembra quasi, poi, di assaggiare il cibo che via via accompagna le riunioni di famiglia, le occasioni importanti, il vivere quotidiano. Si sente il profumo di quella cucina «trasmessa come patrimonio femminile, indifferente al clima – abituata a spremere tutte le verità dall’uovo, le sue consolazioni dal burro – e si elogia la mucca che offre latte per il Parmigiano Reggiano e la carne, quel filo rosso sangue che accomuna la famiglia della moglie di nonno Ulisse e il partigiano che poi lo uccise.
Coloro che come lavoro macellano le bestie diventano qui, per congiuntura beffarda della storia, sia carnefici che vittime.
Chi si aspetta di leggere l’ennesimo racconto che riguarda i Partigiani, edito proprio l’anno del Settantesimo anniversario della Liberazione, non trova terreno fertile per i suoi pregiudizi. Qui il confine tra i buoni e i cattivi, tra chi ammazza e chi viene ucciso, diviene labile, sottile, complesso; l’intento dell’autore è infatti proprio quello di restituirci la complessità di quegli anni terribili in cui, nell’immediato dopoguerra, l’Italia era libera sì dalla dittatura interna e straniera, ma non per nulla pacificata.
Il nonno Ulisse incrocia anche i fratelli Cervi durante il suo cammino, quando viene mandato come Commissiario Prefettizio a Campegine a cercare di sedare la situazione esplosiva di quel Comune. Per tutta risposta, i Cervi organizzano sotto copertura uno spettacolo teatrale come forma di autofinanziamento per comprare le armi necessarie alla lotta. Ulisse, invitato ufficialmente in quanto segretario del partito Fascista, elargisce platealmente dieci lire: un sesto di quanto costa la pistola che poi lo fredda mentre pedalava in bicicletta sulla via di casa per mano – pare – dei gappisti Robinson e Muso.

Più di vent’anni dopo l’eco di quello sparo si riverbera su Robinson, che decide di riutilizzare l’arma che aveva con sé durante la guerra di liberazione per uccidere quello che era il suo compagno e amico, ex comandante.
Quando ho chiesto a Massimo il perché avesse condiviso una storia così intima, ha confermato l’impressione che ho avuto leggendo il suo racconto e dalla quale sono partita: questa non è solo la sua storia, anzi, è la storia di tutti noi, con le sue asperità e con le sue ombre, ma anche con le sue punte luminose di affetto e di poesia per la natura delle persone e della terra di questi luoghi. L’urgenza che ha spinto Zamboni a narrare questa storia è suggerita da una frase tratta da Corpo celestedi Anna Maria Ortese, citata anche dall’autore: «L’inquietudine è questo: ricercare, senza tregua, il nome che avevi».


Massimo Zamboni CCCP CSI
Credits: Francesco Ballestrazzi

Ciascuno di noi dovrebbe leggere e rileggere di queste questioni private che in realtà riguardano tutti, ricercando il proprio nome. Questo è più che mai necessario soprattutto oggi, dal momento che i testimoni che hanno vissuto da protagonisti gli anni dell’immediato dopoguerra ci stanno lasciando e non possono raccontare con la loro viva voce alle nuovissime generazioni di quello che è stato, la cui eco risuona ancora oggi.

Caterina Lodi

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